Jón Kalman Stefánsson
I monti incombono sulla vita e sulla morte e su
queste case che si stringono una all’altra sulla lingua
di terra. Viviamo nel fondo di una conca, il giorno
passa, si fa sera, si riempie a poco a poco di tenebre,
poi si accendono le stelle. Brillano in eterno sopra
di noi, come se portassero un messaggio urgente, ma
quale, e da parte di chi? Cosa vogliono da noi, o
forse piuttosto: cosa vogliamo noi da loro?...
Il ragazzo, il mare e il paradiso perduto
…i monti e il mare regnano sulla nostra vita, sono il nostro
destino, o per lo meno così la pensiamo qualche
volta, e anche tu di sicuro ti sentiresti così
se ti fossi svegliato e addormentato per decine
di anni sotto le stesse montagne, se il tuo petto
si fosse dilatato e contratto al respiro del mare
sulle nostre barchette fragili come gusci di noce.
Non esiste quasi niente di più bello del mare
nelle giornate serene o nelle notti terse, quando
anche lui sogna e la luna è il suo sogno. Ma
il mare non è per niente bello e lo odiamo più
di qualsiasi altra cosa quando le onde si alzano
anche di dieci metri sopra la barca, quando i
frangenti la travolgono e il mare ci beve come
miseri cuccioli, e poco importa quanto dimeniamo
le braccia, quanto invochiamo Dio e
Gesù, quello ci beve come miseri cuccioli. E lì
tutti sono uguali. Le carogne e i giusti, i colossi
e i mingherlini, i felici e gli afflitti. Qualche grido,
qualche frenetico agitarsi di braccia e poi è
come se non fossimo mai esistiti, il corpo inerte
cola a picco, il sangue si raffredda, i ricordi si
cancellano, i pesci vengono a sfregare il muso
contro quelle labbra che, ancora ieri baciate,
pronunciavano parole essenziali, sfiorano le
spalle che portavano il figlioletto a cavalcioni e
gli occhi che non vedono più nulla, posati sul
fondo del mare. Il mare è blu, freddo e mai
calmo, un mostro gigantesco che inspira, quasi
sempre ci sostiene, ma qualche volta no e così
noi affoghiamo; la storia dell’uomo non è poi
tanto complicata.
…
La gente vive, ha il suo momento, i suoi baci,
le risate, gli abbracci, le sue parole dolci, le sue
gioie e i suoi dolori, ogni vita è un universo che
poi crolla su se stesso e non lascia niente dietro
di sé se non pochi oggetti resi preziosi e attraenti
dalla scomparsa del proprietario, diventa45
no importanti, a volte sacri, come se un frammento
di quell’esistenza che è sparita si fosse
trasferita sulla tazza del caffè, sulla sega, sulla
spazzola, sulla sciarpa. Ma tutto alla fine svanisce,
i ricordi si cancellano e tutto muore. Dove
prima c’era la vita e la luce adesso c’è il buio e
l’oblio. Il padre del ragazzo muore, il mare lo
inghiotte e non lo restituisce più. Dove sono i
tuoi occhi che mi rendevano bella, le mani che
solleticavano i bambini, la voce che teneva lontano
il buio? Lui annega e la casa si disgrega. Il
ragazzo viene mandato da una parte, suo fratello
dall’altra, cinque ore a piedi di buon passo
li separano, sua madre e la sorellina di poco
più di un anno finiscono in un’altra valle. Un
giorno erano insieme nello stesso letto, si sta
stretti ma è bello ed è quasi l’unico vantaggio
dell’assenza del padre, e poi tra di loro si erge
una montagna di settecento metri, vertiginosa
e brulla, il ragazzo la detesta ancora di un odio
senza limiti. Ma è così inutile odiare le montagne,
sono più grandi di noi, stanno lì al loro posto,
immobili, e non si muovono di un passo in
decine di migliaia di anni, mentre noi andiamo
e veniamo più veloci di quanto l’occhio fatichi
a vederci. Le montagne però non fermano le
lettere. Sua madre gli scriveva. Gli descriveva
suo padre perché non lo dimenticasse, perché
vivesse dentro di lui, una luce a cui scaldarsi,
una luce di cui sentire la mancanza, scriveva per
salvare suo marito dall’oblio. Raccontava le loro
conversazioni, le loro letture insieme, il modo in
cui si occupava dei figli, i nomignoli affettuosi
con cui li chiamava, le canzoni che cantava per
loro, il modo in cui si fermava sulla soglia con
lo sguardo perduto lontano… “
…
Il mare è freddo e a volte tetro. È un mostro
gigantesco che non riposa mai e qui nessuno sa
nuotare, a parte Jónas che d’estate lavora alla
stazione di pesca alla balena dei norvegesi, sono
stati loro a insegnargli a nuotare, lo chiamano il
Merluzzo o il Pescegatto, ed è questo il soprannome
che gli sta, considerando il suo aspetto. La
maggior parte di noi è cresciuta qui sulla costa
e non ha vissuto un solo giorno senza sentire la
voce della risacca, gli uomini vanno per mare da
quando hanno tredici anni, così è stato per oltre
mille anni, eppure nessuno sa nuotare tranne
Jónas, che va a temprarsi dai norvegesi. Però noi
sappiamo fare altre cose, sappiamo pregare, sappiano
farci il segno della croce, lo facciamo appena
svegli, quando indossiamo le cerate, benediciamo
gli attrezzi, le esche, segniamo ogni gesto,
i banchi su cui sediamo quando ci rimettiamo
a te, Signore, proteggici con la tua misericordia,
fai tacere i venti, calma le onde che possono farsi
tanto minacciose. Rimettiamo tutta la nostra
fede in te, Signore, che sei l’inizio e la fine di
tutto, perché quelli che cadono in mare colano
a picco come pietre e annegano, anche quando
la superficie è uno specchio e quando la terra è
così vicina che chi sta a piede fermo sulla nostra
terra benedetta distingue le loro espressioni,
le ultime, prima che il mare si prenda la vita, il
corpo, questo pesante fardello. Ci rimettiamo
a te, Signore, che ci hai creato a tua immagine,
hai creato gli uccelli con le ali perché potessero
volare in cielo e ricordarci la libertà, che hai
creato i pesci con le branchie e le pinne perché
potessero nuotare nelle profondità che tanto
temiamo. Certo, tutti noi potremmo imparare
a nuotare come Jónas, ma Signore, in questo
modo non mostreremmo sfiducia in te, un po’
come se ci credessimo capaci di correggere la
tua creazione? Inoltre il mare è molto freddo,
nessuno può nuotarci a lungo, no, ci fidiamo
solo di te, Signore, e del tuo figlio Gesù, che
non sapeva nuotare nemmeno lui, e non ne aveva
neanche bisogno, visto che camminava sulle
acque. Immagina se avessimo una fede autentica
e pura e potessimo camminare sul mare, passeggiare
sulle acque in cui peschiamo, correre
veloci laggiù e poi tornare a casa, magari in due
spingendo una carriola carica di pesci.
…
La terra continua a sprofondare nel
buio e nel mare, ma presto a est sorgerà l’alba.
Distinguono qualche stella, nuvole di ogni genere,
blu, quasi nere, chiare e grigie, e il cielo,
perennemente mutevole come il cuore. Bárður
ansima e borbotta qualcosa, versi a brandelli
per la fatica… a deporre il manto… greve d’ombre…
il cuore batte forte a tutti loro. Il cuore
è un muscolo che pompa il sangue, la dimora
della sofferenza, della solitudine, della felicità,
l’unico muscolo capace di toglierci il sonno. La
dimora dell’incertezza: ci sveglieremo ancora
vivi, pioverà sul fieno, abboccherà il pesce, mi
ama, attraverserà la brughiera per dirmi le sole
parole che contano? incertezza riguardo a Dio,
allo scopo della vita e, non meno, allo scopo
della morte. Remano e il loro cuore pompa sangue
e incertezza sul pesce e sulla vita ma non
su Dio, no, perché altrimenti a stento oserebbero
salire in quel guscio di noce, in quella bara
aperta in mezzo a un mare che in superficie è
azzurro ma sotto è nero come carbone.
…
I sei uomini attendono a bordo il pesce che
nuota nei mari da più di centoventi milioni di
anni. Altre specie animali si sono evolute e si
sono estinte, ma il merluzzo continua a nuotare
per conto suo, l’uomo non è che un breve
passaggio nella sua esistenza. Il merluzzo nuota
tutta la vita a bocca spalancata, talmente vorace
che batte tutte le altre specie, tranne ovviamente
la specie umana, ingoia tutto quello che trova
sulla sua strada e non ne ha mai abbastanza,
una volta il ragazzo ha contato centocinquanta
capelin adulti nello stomaco di un merluzzo di
taglia media ed è stato pure rimproverato aspramente
per aver perso tempo a contarli. Il merluzzo
è giallo, gli piace nuotare, sempre in cerca
di qualcosa di nuovo da mangiare, succede ben
poco che sia degno di nota nella sua vita, e una
lenza che oscilla cosparsa di esche infilzate sugli
ami è considerata una gran novità, è un avvenimento
importante. Che cos’è questa roba,
si chiedono i merluzzi a vicenda, finalmente
qualcosa di nuovo, osserva uno, e morde senza
esitare, e allora gli altri si precipitano a mordere
anche loro perché nessuno vuole rimanere
indietro, è bello stare appesi qui, dice il primo
con l’angolo della bocca, e gli altri annuiscono.
Passano le ore, poi tutto comincia ad agitarsi,
si sentono tirare, una forza possente li solleva
verso l’alto, più in alto, sempre più in alto verso
il cielo che tutt’a un tratto si apre e cede il posto
a un altro mondo popolato di pesci strani.
…
Ma ora non ci sono stelle, non in questa attesa.
Non più. Sono tutte sparite dietro le nuvole
che si addensano sopra di loro e portano il
maltempo con sé. Il giorno si avvicina, il vento
rinforza e si raffredda, è nato dal ghiaccio che
riempie il mondo dall’altra parte dell’orizzonte,
guardiamoci bene dal remare in quella direzione,
l’inferno è gelido. Si infilano le cerate sopra
perché malgrado i maglioni siano ben feltrati,
il vento artico li trapassa facilmente, e l’essere
bagnati di sudore non migliora la situazione.
Tutti afferrano la loro giubba, tutti tranne
Bárður, che afferra il vuoto, la mano sospesa a
mezz’aria, si immobilizza e impreca a voce alta.
Che cosa c’è? chiede il ragazzo. Accidenti, la
cerata, l’ho dimenticata, e Bárður impreca ancora
una volta, impreca per essersi inutilmente
impegnato a memorizzare i versi del Paradiso
perduto, concentrandosi a tal punto da dimenticare
di prendere la sua cerata. Andrea se n’è
sicuramente accorta e sarà preoccupata per lui
che ora trema di freddo, esposto al vento polare.
Ecco che scherzi può giocarci la poesia.
…
Ha letto una poesia ed è morto di freddo.
Ci sono poesie che ti portano in luoghi dove
le parole non arrivano, e neanche i pensieri, ti
portano dritte all’essenza stessa, la vita si ferma
per lo spazio di un istante e diventa bella,
limpida di rimpianti e di felicità. Poesie che ti
cambiano la giornata, la notte, la vita. Poesie
che ti portano a dimenticare, a dimenticare la
tristezza, la disperazione, ti dimentichi la cerata,
il gelo si impadronisce di te, preso! e sei morto.
Chi muore si trasforma immediatamente in
passato. Poco importa quant’era importante,
quanta bontà o quanta voglia di vivere avesse,
o come sia impensabile l’esistenza senza di lui:
la morte dice preso! e la vita svanisce in un secondo
e la persona si trasforma in passato. Tutto
quello che era legato a lei diventa un ricordo
che lotti per conservare, che è un tradimento
dimenticare. Dimenticare il suo modo di bere
il caffè. Il suo modo di ridere. Il suo modo di
alzare gli occhi. Eppure lo dimentichi. È la vita
che lo pretende. Dimentichi a poco a poco, ma
con costanza, e può essere talmente doloroso
che fa male al cuore.
…
I numeri non hanno immaginazione e quindi
non devi darci troppa importanza. Secondo le
carte geografiche del nostro paese, le montagne
si levano in aria per novecento metri, il che è
esatto, in certi giorni è così, ma un bel mattino,
quando ci risvegliamo dai sogni della notte
e gettiamo un’occhiata fuori, ecco che sono di
colpo cresciute e sono alte almeno tremila metri,
graffiano il cielo e i nostri cuori si accartocciano
su se stessi. In quei giorni è difficile stare chinati
sui mucchi di pesce salato. Le montagne non
fanno parte del paesaggio, sono il paesaggio.
La lingua di terra su cui sorge il Villaggio si allunga
come un braccio contorto nel fiordo stretto
e raggiunge quasi l’altra sponda. La distesa
d’acqua che delimita d’inverno gela e si trasforma
in una pista di pattinaggio, noi fischiettiamo
alla luna e usciamo di casa con i pattini. Spesso
tutto è calmo perché le montagne fermano i
venti, ma non devi per questo credere che da
noi regni un’eterna quiete e che le piume perdute
dagli angeli in volo scendano fino a qui
volteggiando dolcemente, succede, è vero, ma
aspetta un po’, può anche levarsi la tormenta!
Le montagne rendono la quiete più profonda,
ma possono anche far impazzire i venti che si
incuneano indisturbati nel fiordo, venti polari
gonfi di desideri omicidi, e tutto quello che non
è stato assicurato a terra vola via e scompare.
Legname, vanghe, carretti, tegole, tetti interi,
stivali di piedi destri, pensieri, tiepide dichiarazioni
d’amore. Il vento urla tra le montagne, la128
cera la superficie del mare, la salsedine si deposita
sulle case e filtra nei seminterrati. Quando
il vento si placa e possiamo mettere il naso fuori
senza morire, le strade sono coperte di alghe,
come se il mare ci avesse starnutito addosso.
Ma arriva sempre la calma, dopo, le piume degli
angeli scendono di nuovo a terra volteggiando,
noi torniamo sulla riva ad ascoltare le piccole
onde che si rompono con un lieve sciabordio,
l’agitazione si acquieta, il sangue rallenta nelle
vene, il mare diventa un seducente giaciglio su
cui desideriamo riposare, sicuri che ci cullerà
fino a farci addormentare, l’edredone si alza in
volo e si riabbassa, un continuo ciangottio, e allora
non è più tanto doloroso pensare a coloro
che l’oceano ha voluto chiamare a sé.
…
A volte è nel sonno che si è più felici, sei al
sicuro, il mondo non può raggiungerti. Sogni
zucchero candito e giorni di sole.