È uscito in Francia, presso la casa editrice Trente-trois morceaux di Lione (nella traduzione di Thierry Gilliboeuf, 104 pp., € 18), il Viaggio in Grecia di Gastone Novelli (1925-1968), pubblicato per la prima volta nel 1966 per le Edizioni dell’Arco d’Alibert di Roma, in 45 esemplari numerati (l’ultima edizione italiana è quella proposta da Baldini & Castoldi nel 1999, insieme alle tavole per l’Histoire de l’œil di Bataille e a quelle per Hilarotragoedia di Manganelli). Il libro è un collage di testi e d’immagini selezionati tra i materiali raccolti durante i diversi viaggi dell’artista, a partire dal ’62, tra le isole dell’Egeo: vere e proprie esplorazioni alla ricerca di segni e simboli di un linguaggio primordiale e originario, le cui radici affondano nel mito e nell’inconscio collettivo. L’edizione francese è accompagnata da uno dei più bei testi che mai siano stati dedicati all’artista, Novelli e il problema del linguaggio di Claude Simon (1913-2005), che si presenta qui per gentile concessione dell’Archivio Novelli (si ringraziano, in particolare, Ivan Novelli e Marco Rinaldi). Il futuro Premio Nobel per la Letteratura, protagonista assoluto del nouveau roman, conobbe Gastone Novelli alla fine del ‘61, a una sua personale alla Galérie du Fleuve a Parigi; in occasione di un’altra mostra dell’artista, l’anno dopo all’Alan Gallery di New York, scrisse questo testo. Che vide dunque per la prima volta la luce, appunto alla fine del ‘62, in traduzione inglese. L’anno seguente uscì in traduzione italiana, alle pp. 61-5 del numero 7, febbraio 1963, del «verri»; in questa versione verrà pubblicato anche nel ’66, come plaquette autonoma (accompagnata da un testo di Elio Pagliarani) pubblicata dalla Galleria Marlborough di Roma, nonché nel ’76 nel catalogo Feltrinelli dell’opera novelliana curato da Zeno Birolli. L’originale francese è andato perduto; sicché quella che si legge ora, nell’edizione francese del Viaggio in Grecia, è una retro-versione – pubblicata per la prima volta nel 2005, accompagnata da una nota di Brigitte Ferraro-Combe, su «Les Temps modernes» (una traduzione tedesca è uscita nel 2014 sulla rivista «Sinn und form»).
Il sodalizio con Novelli di Simon non si concluse con la precoce scomparsa dell’artista. Uno degli ultimi libri del Premio Nobel per la Letteratura del 1985, Le jardin des Plantes del 1997 (ancora non tradotto in italiano), racconta – attraverso una strepitosa galleria di ekphrasis – la profonda consonanza intellettuale e creativa fra lo scrittore francese e l’artista italiano, dedicando molte pagine al racconto dell’esperienza drammatica vissuta da Novelli durante la Resistenza, con la carcerazione e la tortura. C’è da sperare che con la nuova vague di edizioni di Simon (si ricordano quelle della Strada delle Fiandre per Neri Pozza, dell’Erba e del Tram da Nonostante, delle Georgiche presso Lavieri) venga presto il tempo, nella nostra lingua, anche per Le jardin des Plantes: capitolo “italiano” di questo straordinario virtuoso – uno dei più grandi del Novecento – della traduzione di immagini in parole. (andrea cortellessa)
Claude Simon
Se una pittura di Novelli, con la sua spessa materia cremosa, le sottili modulazioni di toni e le scoppiettanti coloriture, viene in un’infima frazione di secondo interamente afferrata, colta (o meglio: ci afferra, ci coglie), essa può per contro essere «conosciuta» soltanto dopo una lunga investigazione, un lungo inventario nel corso del quale l’occhio deve percorrere l’intera superficie, alla scoperta degli elementi che vi sono raccolti e che compongono il quadro.
La sua pittura «racconta», come ad esempio quella di Hieronymus Bosch, ma con la differenza che in Novelli non c’è mai nulla di aneddotico, che nulla viene mai imitato ma piuttosto significato. Da una parte l’incerto magma delle nostre sensazioni, delle nostre emozioni, dall’altra le parole, i suoni o i colori. Dall’incontro dei primi con i secondi, dal loro adeguarsi o dal loro non adeguarsi, dal loro conflitto e dalle loro inter-reazioni, deriva una risultante attraverso la quale l’uomo si definisce: il linguaggio, irreducibile compromesso fra l’innominabile e il nominato, l’informe e il formulato.
Oggi, poiché la nostra epoca e gli avvenimenti che hanno sconvolto il mondo hanno rimesso in questione l’intero ordine sociale e le nozioni stabilite, questo problema ci viene imposto più insistentemente che mai. Non a caso certamente sono apparse, poco dopo la guerra, opere dai titoli significativi quali Le degré zéro de l’écriture di Roland Barthes e L’Innommable di Samuel Beckett, mentre negli stessi anni veniva elaborandosi la pittura di Dubuffet, di Bissier, di Novelli.
Scampato all’inferno kafkiano di Mauthausen, questo fallimento demenziale e derisorio (e senza dubbio logico) della civiltà e della cultura occidentali, Novelli abbandona il nostro mondo, si imbarca per il Brasile. Presa dimora a San Paolo (vale a dire ancora urbanizzato, abitante di una città, di un universo strutturato e organizzato), comincia a dipingere grandi superfici sulle quali distribuisce semplici macchie colorate, approssimativamente rettangolari o quadrate, che si giustappongono o si accavallano. L’equilibrio, i rapporti di colore tra queste forme, sono di una raffinatezza estrema, come se chi le aveva inventate volesse rifugiarsi deliberatamente in un estetismo di rifiuto, e solamente prendendo conoscenza della sua opera successiva si comprende che al di là di queste elaborazioni egli tendeva a una prima esplorazione della realtà pittorica.
In realtà, a un certo momento queste ricerche cromatiche e lineari (vi fu un breve periodo, senza colori, in cui soltanto un grafismo nero anima le tele) cessano, lasciando il posto a pitture di fattura e di spirito totalmente diversi, come se Novelli fosse bruscamente passato da un polo all’altro: i colori, à-plats geometrici e nettamente delimitati, vengono sostituiti dai grigi, dai bianchi calcinati, spessi, in cui si distinguono macchie incerte, forme cancellate a metà.
Muri in cui la calce si sbriciola, in cui graffiti, geroglifici elementari, iscrizioni, scarabocchi, si confondono in un disordine anarchico, si sovrappongono, si cancellano. Sulle pareti verticali delle abitazioni, solide, toccabili e indubitabili, vengono a inserirsi balbettamenti, fantasmi, sogni.
«Dopo la guerra», dice con pudore Novelli (non dice dopo l’inferno, il nulla, la morte di Dio e dell’uomo, il «degré zéro» di tutto, l’universo delle baracche e dell’assassinio), «bisognava, era necessario ricomporre un’estetica, ricostruire una civiltà».
E come ripartire da zero, se non fondandosi quale supporto, su materiali elementari, i soli certi, i più poveri, i meno equivoci o ricusabili: il gesso, la terra, la sabbia...
Fino al ’59 egli insiste nel ricominciare la pittura dall’inizio. Facendo seguito alle pitture che si potrebbero chiamare «schematiche» del periodo precedente, costruisce ora «oggetti» pittorici, tanto concreti, carnali si potrebbe dire, quanto le opere precedenti erano depurate e smaterializzate.
«Si trattava», aggiunge, «di cose esteticamente belle ma prive di un sufficiente apporto intellettuale».
Era necessario andare oltre. Dopo l’esplorazione dei due poli estremi della pittura, dopo la tesi e l’antitesi, era venuto il momento di tentare la sintesi. Dipinge allora il quadro intitolato Première salle de Musée.
Si tratta sempre di un «muro», una modulazione, in una spessa e sontuosa materia, di grigi e di bianchi, ma sul quale appaiono ora, come frammenti di manifesti strappati, testi e macchie inquadrati da una larga banda nera, come una collezione di cose (o meglio di frammenti di cose) amate, incollate e distribuite sulla superficie intonacata.
E un anno più tardi (nel 1960) giunge la Seconde salle de Musée. Se si tenta di analizzare questa importante pittura, si nota che è composta di una parte destra simile alla Première salle de Musée, dipinta in «non colore» (se ci è permesso di usare questa espressione, poiché le raffinatezze e le variazioni di questi grigi e di questi bianchi costituiscono anch’essi «colore»), mentre la parte sinistra del quadro è riempita come da una scacchiera o ammattonato dai colori vivi (rosa elettrico, nero, rosa-rossetto per labbra, verde oliva, verde smeraldo, giallo limone, blu reale, lilla), nei comparti della quale si vede apparire una sorta di alfabeto, di repertorio di forme, frammenti o elementi di corpi per lo più femminili (busti, seni, cosce); di questi «segni» alcuni sono molto riconoscibili, molto leggibili, altri sono come «derivati» da forme ossessive, assumendo quell’aspetto invertebrato e per così dire di lumaca degli organi sessuali, come una specie di mostri autonomi, di animali favolosi od onirici. Altri comparti sono completamente occupati da un solo colore, altri contengono una lettera, altri la stessa lettera più volte ripetuta, altri un finale di frase, altri dei segni puntiformi, come quelli impressi sulle diverse facce dei dadi da gioco, e il 5 (un quadrato con un punto ad ogni angolo e un punto centrale) evoca curiosamente un viso.
Osservandola a lungo, si scopre che questa scacchiera costituisce come una «spiegazione», un commentario variopinto e ordinato della parte destra del quadro in cui, nella grisaille e disordinatamente, cancellato a metà, dispersi sotto l’intonaco e le ripassature, compaiono lembi di forme e di iscrizioni poco distinte.
E naturalmente questa «spiegazione» è essa stessa incomprensibile. Non esiste la chiave per leggere e farsi strada in questo meraviglioso e abbagliante labirinto di segni da cui non si può uscire.
In realtà, alle prese con le difficoltà dell’espressione, quelle stesse del linguaggio, Novelli le affronta in tutta la loro ambiguità. Ingannevole, illusorio, magnifico, imperfetto e perfettissimo nel medesimo tempo, limitante e universale, sfuggente al suo inventore per vivere un’esistenza propria, per inventare e creare a sua volta, fino a comandare e fecondare con la propria magia chi credeva di servirsene come strumento: il linguaggio.
«La Genesi della scrittura è una felice parabola dell’arte», ha scritto Will Grohmann a proposito di Klee. La scrittura, il linguaggio, Novelli si ostina a coglierli nella loro essenza. Che differenza vi è all’origine fra il disegno (vale a dire il segno grafico) col quale si rappresenta un oggetto e la scrittura, la combinazione di segni che compongono la parola che evocherà il medesimo oggetto? Il geroglifico, la lettera d’alfabeto, la parola, la frase, i suoni. Sappiamo che verso la fine della sua vita Joyce aveva immaginato una tipografia su misura, non potendo ammettere che lo stesso disegno della lettera S, per esempio, potesse essere usato per scrivere Serpente, Sacrestano, Sirena o Stracotto. Tutti sanno che nominare è già possedere, oppure che nominare un oggetto già posseduto accresce il sentimento del possesso, e (sanno) a che punto l’immagine sonora e grafica di una parola finisce (o comincia) per essere tutt’uno con l’oggetto che designa. Lo sanno bene i censori pudichi che raccomandano di parlare del «petto» di una donna, e non dei «seni», parola in cui la s iniziale ha già un fruscio come di seta, la e bianca evoca la trasparenza della pelle sotto la quale corre la traslucida rete di vene azzurre, la n sinuosa sembra disegnare il dolce altalenare, la i rosso-rosa si erge come il capezzolo.
Di qui l’inventario del mondo sensibile (colori, forme, suoni) disposto (tentativo sconvolto d’ordine e di possesso) nelle abbaglianti scacchiere, «comparti» simili a quelli in cui il tipografo conserva i suoi caratteri, oppure «case», «dimore» come si dice in astrologia.
«All’inizio era il Verbo». Uscito, o meglio scampato dal nulla, Novelli visse una straordinaria avventura. In realtà non gli bastava avere abbandonato l’Europa, dovette fuggire persino le città, fuggire ogni specie di civiltà. Diventò allora cercatore di diamanti nel Mato Grosso. Abbandonato alle soglie della stagione delle piogge dalla guida indiana, è costretto a passare sei mesi in quel delirio vegetale con un compagno malato, dormendo sotto l’incessante diluvio tropicale, catturando con le mani, dopo ore di appostamenti sott’acqua, immobile, respirando attraverso una canna cava, i pesci necessari al nutrimento. Si ritrovava ancora una volta come a Mauthausen (con la differenza che là si trattava di un inizio e non di una fine), ad uno dei «degrés zéro» della civiltà. Parlava col compagno malato? Certamente poco. Un mattino, al risveglio, la loro tenda si trova circondata da frecce conficcate in terra. Niente altro. Non un rumore, un grido. Questo per un mese e mezzo durante il quale ogni giorno Novelli, in segno di amicizia, collocava pezzetti di pesce sulle frecce. Ma niente ancora. «Poiché», dice, «laggiù come a Mauthausen, se avete un aspetto forte vi uccidono, perché vi temono, e se sembrate deboli e inoffensivi vi uccidono ugualmente, per rubare o anche soltanto per il piacere di farlo». Nell’alternativa bisogna pertanto (è una questione di vita o di morte) trovare assolutamente il punto di equilibrio, che si sposta continuamente, la posizione ambigua, impossibile a definirsi. Nulla è fisso, nulla può essere esplicitato, fermato una volta per tutte, come vorrebbe credere l’uomo nel suo forsennato desiderio di sicurezza. Non vi sono soluzioni. «Il risultato, la conclusione», dice ancora Novelli, «è sempre una cosa stupida e mal fatta. Ciò che conta è la radice».
Gli indiani, che finisce per conoscere, si esprimevano mediante la sola lunga modulazione della stessa vocale. Su alcune sue tele, lunghe file di A (la prima lettera, il primo suono, il primo grido) si allineano, ondeggiano, ora diventano piccole, ora si ingrandiscono. E come la loro altezza, l’ordine e l’allineamento, il loro colore subisce, da una lettera all’altra, infimi mutamenti, infimi modulazioni, passando dal giallo arancio al giallo limone, poi al giallo verde, poi al verde, e di lì a poco, attraverso le linee, si distinguono forme indecise che abbozzano, fantasmi di carne e di sogno elaborati dalla memoria nel, col e attraverso il linguaggio.
Assistiamo, credo, ad una delle più sorprendenti e ricche ricerche pittoriche e grafiche. Disegnare l’innominabile e nello stesso tempo sapere che è un’illusione, che esso non si lascia mai immobilizzare, rinchiudere, congelare. Tentare, essendo perfettamente coscienti della vanità del tentativo, del fallimento, tentare di imprigionare in queste scacchiere i cui colori splendenti ricordano le piume degli uccelli tropicali con cui gli indiani confezionano i loro costumi, tentare dunque di captare il mondo attraverso questa collezione di segni, questo alfabeto di «cose amate», che in una parte della Seconde salle de Musée sono ancora alla fase informe, inarticolata...
Senza posa, irrimediabilmente e inesorabilmente, la vita sfugge al nostro desiderio di conoscenza, di possesso. Ne potremo afferrare soltanto effimeri lembi, dei frammenti. Forme, parole che si disgregano, si sminuzzano, poi si ricompongono di nuovo secondo il capriccio delle loro proprie leggi, mostri fatti di numerose mammelle, di oggetti isolati dalla memoria o dall’emozione, che si raggruppano secondo nuove strutture le cui leggi non sono più anatomiche od organiche, ma oniriche (e qui si pensa alle «Vénus mollement assemblées» di Valéry): là è tutta la magia del Verbo, del linguaggio.
Il possibile è impossibile, e l’impossibile è possibile. Il risibile e confortevole desiderio di ordine fa naufragio mentre trionfa. L’alfabeto così accuratamente ordinato, classificato, si sparpaglia nell’immensità dello spazio. Qui le parallele si incontrano prima dell’infinito, o, se si preferisce, l’infinito fa intrusione entro le dimensioni della tela. Le linee della rete, la scacchiera che si voleva rigida, le sue rette ondeggiano, si spezzano, si allargano, si avvicinano, ripartono in nuove direzioni, come quelle di un lastricato che adorni il fondo di una piscina. Lo spazio qui non è «imitato» dagli artifici del trompe l’œil, come quelli usati dai pittori che amano la prospettiva, ma sulla superficie a due dimensioni, intangibili, della tela, ci viene rappresentata l’idea stessa dello spazio.
Da una provincia all'altra, dall’informale al formale, dall’innominabile al nominato, dal «Nacht und Nebel» alle sfolgoranti code degli uccelli schiamazzanti, non v’è corrispondenza alcuna. Il linguaggio non è che folgorazione, breve sfolgorio, briciole captate. Il mondo splendido, appena afferrato, si sottrae, sfugge, si riforma, senza posa ricominciato, senza posa pronto a ricominciare. È il perpetuo sfolgorio, la perpetua sorpresa, il perpetuo rimettere in discussione, il perpetuo miraggio, il perpetuo combattimento, di cui la consapevolezza di ciò ch’esso ha di vano costituisce per l’uomo che tuttavia lo ingaggia il più bel titolo di grandezza.
Una risposta a “Novelli e il problema del linguaggio”
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