Antonella Anedda
In questo nuovo libro che conferma la responsabilità del suo sguardo sul mondo, Gian Maria Annovi parla di una realtà da tempo sotto i nostri occhi: le tante badanti che accudiscono i nostri vecchi. Lo fa in modo poetico e politico attraverso la rilettura della Prologo della Scolta, la sentinella dell’Orestea di Eschilo, che scruta l’arrivo di Agamennone da Troia e non ha nome e viso, ma solo voce e occhi e un letto umido.
Le immagini di Annovi sono forti e sono fatte di corpi. Ci sono due donne, due persone dentro le quali, come suggerisce l’epigrafe da Persona di Ingmar Bergman, l’autore prova a diventare, di volta in volta, facendole parlare in blocchi alternati e spezzati tre volte dal Canto di ingresso, dal Canto delle vicine e dal Canto di uscita. La scolta è la straniera, assoldata da un figlio per badare alla madre. È lei la sentinella di cui non sappiamo nulla se non, attraverso le parole delle vicine, che è «giovane e slava».
Il suo tempo è limitato, legato alla vita della Signora: dunque anche la sua esistenza e sopravvivenza sono appese a un filo. Il suo linguaggio è fatto di sostantivi e verbi infiniti. Annovi mostra la nudità di un lingua appesantita dallo sforzo e dallo spaesamento: «una lingua che pare / calcata da un grosso bue» scrive, riprendendo l’immagine dalle parole che Eschilo fa dire alla Scolta: «Un grosso bove calca la mia lingua».
È una lingua modificata dalla fatica, modulata dalla pazienza tradotta da un altro alfabeto, un’altra grammatica in cui non esiste l’articolo, con segni diversi in cui entrano vento, gelo e suoni gutturali, suoni sciti, ritmi lontani. Come la Scolta annuncia e aspetta, vede arrivare la catastrofe e la morte ma non può agire. L’altra donna è la Signora, figura della perdita nonostante la ricchezza. Il suo oro è inutile come un tesoro sepolto in una tomba, la sua cultura è impotente e semmai nutre il suo rancore, la presunzione di un prestigio che appartiene al passato: «io che insegnavo il latino / che traducevo il greco».
Annovi ci restituisce il ritmo di questa coppia anomala, facendo sentire a chi legge il loro passo diverso, il loro doversi adeguare l’una all’altra. Non si parlano ma le loro parole sono sfrangiate dalla solitudine e dalla malattia. Sospetto, dolore, rimpianto attraversano il monologo interiore della Signora che pensa alla scolta con fastidio: «la sento che striscia / nella notte che non dorme / la segue il rumore delle ciabatte // si ferma in cucina e mi apre / la mia celletta dei surgelati / e ne vedo la luce glaciale / che goccia da tutte le fessure / lei ci resta davanti per mezzora / (è la neve, io penso, che ci vede: / il bianco notturno del suo paese)».
Pochi dettagli: il possessivo: la MIA celletta dei surgelati e la paura – forse legata alla memoria di una fame? – della privazione di ciò che è stato accumulato si incrinano davanti all’intuizione che la sosta prolungata della badante davanti al frigorifero sia anche contemplazione: luce per un paesaggio inventato, visione terrena di neve e notte bianca. Annovi mette in scena, con pudore e senza mai cadere nel patetico, l’inermità dei due personaggi. La Signora è in balia, si sente in balia dell’altra donna, non vuole essere toccata, lavata, espropriata da mani che percepisce estranee, fredde, dure. La scolta prova a stabilire un contatto attraverso la cura di quel corpo malato e muto e parla, al vuoto, ai muri, con una lingua fatta di necessità fisica, legata alle viscere che Annovi aveva già captato nei suoi Self-eaters (Mazzoli 2007): «…mastica un linguaggio / che abita sul fondo dello stomaco…».
In La scolta la fame linguistica percorre tutti gli stadi anche quelli della rabbia e del desiderio di morte: «penso di togliere il soffio a la donna / con cuscino con / borsa di plastica / forse. / ma c’è icona di vergine in calendario di maggio. dico rosario». Annovi affida la sua pietà laica e la sua riflessione poetica a un errore «icona di vergine IN calendario», quell’«in» leggermente sghembo, intimo come i calendari sulle pareti, che misteriosamente ci commuove.
L’importanza di questo libro è nell’aver compreso quanto questi nuovi suoni-sensi non solo facciano ormai parte di un nostro orizzonte linguistico, ma stiano scuotendo ciò che è troppo immobile da troppo tempo. La lingua forbita ma spenta della Signora lo sente. La lingua della scolte è nelle nostre cucine. Forse servirà a «innovare», scalciando e esaltando, il corpo del nostro italiano: «Sento la voce di Dante / quando ascolto che parla / lingua la sua che s’innova e che / scalcia // che s’esalta tra i denti / che scalza dal nostro domani / questo paralizzato italiano».
Gian Maria Annovi
La scolta
nottetempo (2013), pp. 33
€ 4,00
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Grazie. Mette in moto il desiderio di leggerlo. Come un’urgenza.