Andrea Inglese
Non ho mai avuto un concetto chiaro del salone del libro, ma ho capito che è qualcosa d’importante, e quando qualcuno me ne parla, lo guardo con aria d’intesa, anche se non so mai se si riferisca a Francoforte o a Torino. Neppure so con certezza se mai ho partecipato in qualche forma a questo evento, ma conservo dei ricordi di stordimento, di conferenze simultanee, di gazebo animatissimi, con scrittori in vena di battute, o comici e presentatori in vena di romanzi.
Facendo parte di quelli che non hanno un rapporto facile con i libri – me ne ritrovo in casa troppi, e non riesco a leggerne che una minima parte – i luoghi dove i libri vengono esposti massicciamente – e dove bisogna confrontarsi con le straordinarie novità editoriali di una produzione mondiale – mi producono una certa dose di panico e smarrimento. L’illimitatezza di tanto genio multiculturale e proteiforme, romanzesco e saggistico, macabro e poliziesco, mi estenua in anticipo. Nonostante le promesse di così folta merce stampata, continuo a sentirmi un essere mortale, di media idiozia, imperfettamente alfabetizzato e dalle risorse immaginative non abbondanti.
Quest’anno, però, è cambiato il vento e i terribili Moloch delle letterature straniere non incombono più. Ricordo l’anno in cui il paese ospite era Israele. L’alternativa era durissima: o aggiornarsi in modo serio sulla galassia della letteratura israeliana, al di là dei soliti Grossman, Oz e Yehoshua, mettendo così in pace la coscienza letteraria, oppure boicottare il salone, e mettere in pace almeno la coscienza politica.
Per il 2014, questi dilemmi saranno, fortunatamente, obsoleti. Io avrei fatto salti di gioia, se avessero invitato le Isole Cayman. Qualche manualone sull’allevamento di tartarughe, alcuni libri fotografici sulla Seven Mile Beach, e una profusione di agili e colorate brochure di fondi d’investimento. Non posso, però, lamentarmi: la scelta di Città del Vaticano mi sembra altrettanto oculata e denota una presa di coscienza dei limiti non solo del lettore medio italiano, ma anche del lettore “forte”, che ha comunque bisogno ogni tot anni di farsi un salone del libro un po’ più “amichevole”.
La storia della letteratura vaticana è senza dubbio nobile e veneranda, anche perché i papi son sempre stati gente dalla penna facile. Inoltre la Santa Sede ha avuto subito degli innegabili best-seller, a partire dai vangeli – quelli canonici se non altro – specialmente dopo le innovazioni del celebre artigiano Gutenberg. Però è chiaro che da qualche secolo in qua, forse a causa del cosiddetto processo di secolarizzazione, poeti, romanzieri, saggisti, drammaturghi, filosofi, uomini e donne di scienza vaticani sono un po’ a corto di argomenti. Certo, storie di martirio per la salvaguardia della verginità ne circolano ancora, e superbamente scritte.
Vi è tutta la stupenda, ariosa, letteratura adolescenziale: La Pentecoste di Domenico Savio, Canotaggio con Don Bosco, Bernadette a spasso per i Pirenei. La sferzante letteratura aforistica: Dieci comandi sono abbastanza, Tre per uno e uno per tre, Novene quando serve. Poi i corposi trattati sulla sessualità pre-matrimoniale, con finezze patristiche che faranno fremere gli oramai annoiati lettori delle Cinquanta sfumature di grigio. E quelle ponderose, innumeri, rimasticature su temi perfettamente sgonfi, come la fede, la tolleranza, la carità, in regime di dispiegato capitalismo, di sfrenato e capillare consumo.
Per non parlare della manualistica tipicamente vaticana sull’insabbiamento degli scandali sessuali e finanziari (un titolo tra tutti: Sabbie su Sodoma). Ci saranno quindi autori sconosciuti, titoli risibili, zuppe ben riscaldate, ma anche quei pochi irresistibili classici, scritti da profeti e apostoli, che non presenteranno certo cattive sorprese: alla fine le acque del Mar Rosso si ritirano, e Cristo sbuca dal sepolcro. Tutto ciò rende finalmente più digeribile l’estenuante maratona culturale del salone, senza le complicazioni del confronto tra culture diverse o dei fastidiosi ed estenuanti dibattiti democratici.
Tutto sarà più rapidamente assimilabile grazie a quel pacchetto di verità predefinite (e sacre), che spero non vengano a mancare in nessuno dei prodotti letterari vaticani. Un anno, insomma, a bassa stimolazione intellettuale. Una scelta, per altro, coerente con gli inviti alla vita morigerata, che ci vengono anche dalle laiche autorità istituzionali a fronte di una crisi economica perdurante. Razionare benzina, bistecche e riflessioni.
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Il Vaticano al Lingotto: dopo la #BiennalediVenezia i libri – ma quali libri? (incognite dell’editoria papale)
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Provare a #prenderlabene se il Vaticano è paese ospite del Salone del libro. Inglese su @alfabetadue http://t.co/nsTjSXrF07
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“Inoltre la Santa Sede ha avuto subito degli innegabili best-seller, a partire dai vangeli”
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Non sapevo di questa scelta, che per certi versi mi appare genialmente elefantiaca perché, a ben vedere, il cumulo bibliografico che si potrebbe mettere in campo è decisamente insostenibile per un Salone solo: ce ne vorrebbero almeno dieci per provare ad analizzare le influenze e le derivazioni letterarie e teofilosofiche di due millenni di azione cattolica in occidente e non solo, per tacere delle contromosse in odor di eresia e di Riforma. Un bell’impegno, e una sfida inevitabilmente destinata ad essere persa.