Jacopo Galimberti
In un libro sull’editoria in Italia lessi di come l’Ariosto si barcamenava per stampare e vendere L’Orlando furioso. Sembrava la descrizione di un odierno poeta che si arrabatta per commercializzare la propria plaquette. Tutti i maldestri saggi sulla supposta “attualità” dell'Ariosto venivano di colpo spazzati via dall’immagine folgorante di questo tizio scornato, costretto a gretti lavoretti, leccate e suppliche avvilenti ai Duchi e potenti di turno.
Così come le classi continuano a esistere anche se pochi ne percepiscono l’esistenza, è altrettanto vero, mi sembra, che il precariato sia esistito ben prima del Fordismo. Qualcosa accomuna il ciompo, il picaro, il lazzaro, Casanova sessantenne costretto a fare il bibliotecario, la “gazza” Ariosto e quella pazza di Torquato Tasso. Occorrerebbe occuparsi della longue durée della vita precaria: delle sue condizioni affettive e materiali, delle miserie e prodezze che ne accompagnano il fulmineo passaggio sulla Terra.
E cosa c’è di più naturale per una storica della letteratura, un filosofo, un sociologo trentenne che concentrarsi su questi escamotages proteiformi, visto che probabilmente ne sono a loro volta illustri esperti? Si aprirebbe un nuovo campo d’indagine e uno spietato, irriverente approccio applicabile a qualsiasi periodo storico, prima, dopo o durante la parentesi del Fordismo.
Derrida avrebbe voluto esortare Heidegger o Kant a parlare della propria vita sessuale perché, a suo parere, era imprescindibilmente legata alla loro filosofia. Io, per le stesse ragioni, vorrei sapere tutto sull’economia domestica di Derrida, sul contributo delle compagne munifiche, delle zie, delle nonnine; vorrei sapere come si manteneva Hobbes in esilio, come sbarcava il lunario Debord e se Bacone praticava quello che predicava rispetto alla paghetta ai figli. Vorrei conoscere nei dettagli la meschinità indotta di Gramsci e Togliatti borsisti a Torino, e chiederò ad Antonio Moresco di raccontarmi gli anni in cui, in un monolocale, scriveva sul cesso per non svegliare il figlio.
Non è gusto per il pettegolezzo, ma un’indagine di ciò che quotidianamente sostanzia e angustia il corpo del precario. Si tratta, insomma, di inaugurare un micromaterialismo che non essenzializzi il precariato, ma che dia dignità e centralità a ciò che il Fordismo riduceva a interstizio e pettegolezzo.
Inventata dai “ricercatori scalzi”, cioè da quei comunisti libertari che negli anni cinquanta e sessanta andavano in autostop alle conferenze a parlare del sottoproletariato o della Olivetti, la “conricerca” è oggi ancora più attuale. Spetta ai nuovi “ricercatori scalzi” (il dottorando senza borsa, l’assistente con figlio, quella che scrive la tesina alla reception di un hotel) di instaurare un rapporto di complicità con il proprio oggetto/soggetto.
Una complicità che fa sì che il ricercatore s’impregni delle proprie ricerche non meno di quanto il precario possa appropriarsene per valorizzare la propria vita, e la propria genealogia, fuori e contro la sfera lavorativa.
A meno di non ipotizzare una ricerca fatta dentro e per un movimento, ciò avverrà solo se i Baroni e potenti di turno lasceranno fare. Faranno forse obiezioni, segnalando i rischi di proiezioni, di anacronismi, del tono partigiano... Ma ora più che mai coloro che vogliono produrre qualcosa di feroce nella moribonda università italiana devono essere di parte.
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