Paolo Fabbri
Nelle piazze reali e sulle autostrade virtuali della politica volano stracci e parolacce. Non è una sorpresa. Le male parole, sdoganate da tempo, dilagano fuori dal traffico e dagli stadi per approdare, enfatiche e imperative, in tutte le forme di vita. È pandemia.
Le canzoni popolari e le colonne sonore dei film sono tutte Parolacce e musica. Nelle Camere parlamentari e nei condomini si chiederà la Parolaccia, nei tribunali si darà la Parolaccia alla difesa, nei pubblici uffici si metterà una Parolaccia buona. Se di fretta, ci scambieremo due o quattro Parolacce. Insomma vivremo a Parolacce incrociate e i vip moriranno con le ultime Parolacce famose.
Tendete l’orecchio e arrivano: oscene, volgari, sporche, spinte, crude, indecorose, scurrili, empie, villane, triviali e via disdicendo. Un elenco è dapprima ghiotto ma sempre più ridondante e infine depressivo. Basti pensare alla carriera inversa e parallela di termini colloquiali come Cazzate e Figate che segnalano, in una società cosiddetta machista, l’opposizione tra greve ottusità e brillante riuscita.
E pensare che poco fa ci lamentavamo del PO.CO., cioè del POliticamente COrretto, nel tempo postvittoriano dei buoni sentimenti, regno dell’eufemismo e della litote. Sui genitali e gli orifizi, il coito e l’intera gamma delle secrezioni corporee, sulla malattia, sulla morte e soprattutto sui ruoli e i modi della vita collettiva – genere, comunità e professioni – aleggiava un’atmosfera untuosa di tabù, atti indiretti, definizioni oblique e ipocriti sottintesi. (Nei galatei universitari era impossibile scrivere un pronome senza doppia menzione di genere.)
Una reazione all’idioma licenzioso degli anni Sessanta, quando la lingua era politicamente libertaria e sessualmente libertina. Quando le avanguardie relativiste rivendicavano, horribile dictu, l’ugual valore letterario d’ogni parola del dizionario. E sceglievano per i rapporti sessuali l’uso di crudi verbi transitivi, mentre quelli del PO.CO., i Pochisti, si esprimevano con verbi pudicamente intransitivi e delicatamente reciproci. (Parlando di sesso siamo tutti villani: la scelta lessicale è tra l’asilo, l’anatomia e il blog!)
Come si spiega l’inversione cattivista di questa inversione? Con l’evidenza che il segno è energumeno (Bataille) e che la lingua non è una finestra sulla mente individuale, ma una veduta sulla cultura collettiva. Non è un riferimento tautologico – «dire pane al pane» – nel mondo esangue della logica, ma un’azione efficace sui valori, i loro conflitti e trasformazioni. Quindi le espressioni di informalità, machismo, sfrontatezza solleticano, provocano e offendono, ma perdono alla svelta l’odore di zolfo e il mordente. La parolaccia ridondante stinge il suo marchio, diventa un’interiezione e finisce, scarica, come un infisso nella sequenza discorsiva. Come l’affettuoso «bastardo» e il rilassato «vaffa». Sazietà semantica.
Accade lo stesso all’atto linguistico prediletto dell’attuale diverbio politico: l’insulto, con le sue fangose varianti: ingiurie, improperi, offese, contumelie, villanie, sberleffi, calunnie che traboccano dalla presenza alla telepresenza, dall’audience ai new media e viceversa. (Lo schermo si presta allo scherno e il digitale al dileggio). I linguisti si interrogano sulla speciosa sintassi dell’offesa – come l’improbabile imperativo anglosassone «fuck you» o il curioso plurale dei «cazzi acidi e amari» dell’italiano; una tipologia sommaria distingue le contumelie in descrittive, idiomatiche, enfatiche e catartiche – ma l’eccetera è numeroso. Vaffa, per esempio, è la parola d’ordine e il labaro d’un nuovo movimento politico.
Generalizziamo: l’insulto vola, ma c’è chi lo raccoglie, se ne ha a male e lo contraccambia con la legge bronzea dell’escalation: risentirsi e farsi sentire passando il segno altrui. Come nell’antico duello, il diritto non riconosce il diritto all’oblio dell’offesa e autorizza la vendetta. In questo tiro a segno alla reputazione e al decoro, è impossibile misurare le parole. L’insulto quindi è una performance razionale o per lo meno aggiustata. Erede dell’antica bestemmia – si dice «sacramentare» – dà forza e ritmo al discorso, sensibilizza al valore, ridesta rapporti emulsionati e assopiti. Serve a far entrare i valori condivisi o divisi più che a far uscire l’emozione.
Lo hanno capito i cognitari dei blog che hanno ripreso il testimone dall’idioma proletario dei carrettieri, scaricatori, militari e tifosi. Carta bianca agli improperi, quindi, ma con un principio di precauzione. L’insulto corrente – come la bestemmia la quale torna con il ritorno del sacro – è trito e ritrito. Espletivo per i linguisti o pleonasmo per i retorici, colma i vuoti del discorso e le pecche dell’immaginazione.
E se dice quando non c’è niente da dire, è votato alla più cerimoniale inefficacia. Eppure sono note le sue caratteristiche poetiche: parallelismi, allitterazioni, assonanze: una magia verbale che può giungere alle vette dell’epigramma e del pamphlet. Ricordate il «Nobodaddy» con cui William Blake pronunciava il nome da non dire invano? E il profetico motto con cui Samuel Johnson additava un politico del suo – del nostro? – tempo: «Morì nel suo letto senza insudiciare il patibolo»? Imprecatori, ancora uno sforzo! Impariamo a maledire bene. Più inventiva nell’invettiva!
Dal numero 29 di alfabeta2, dal 7 maggio nelle edicole, in libreria e in versione digitale
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