Gian Piero Fiorillo
Sollecitato dalla prossima pubblicazione del DSM-5, il Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association, si è aperto anche in Italia il dibattito sulla diagnosi in psichiatria. Aut Aut, rivista da sempre attenta al problema della follia, ha dedicato un numero monografico alla questione. È un fascicolo ricco, che spazia dal versante filosofico al welfare, alla biopolitica, al rapporto fra dispositivi diagnostici e organizzazioni sanitarie.
L’approccio generale è molto critico, e la diagnosi psichiatrica viene chiamata a rispondere tanto delle sue incertezze epistemologiche, quanto del carattere storico e culturale dei suoi costrutti. Introdotta in diversi interventi (Colucci, Marone, Beneduce) è tuttavia nel complesso trascurata una questione cruciale (forse la questione cruciale): quella del rapporto fra diagnosi e terapia. Non si tratta, a mio avviso, soltanto di delimitazione del campo d’osservazione, ma di una vistosa falla nel discorso. Che relazione intercorre fra la risoluzione diagnostica propria (al di là della sua codificazione a fini statistici) e l’azione terapeutica? La domanda dovrebbe essere inevitabile anche perché, qualora venga posta interrogando non l’ordine dei manuali ma il magma delle pratiche, sembra condurre a una risposta sconcertante: praticamente nessuna.
Consideriamo le terapie farmacologiche, ovvero il campo in cui il rapporto diagnosi-terapia dovrebbe essere assolutamente vincolante. L’opinione pubblica di tutto il mondo è convinta che questo vincolo esista e sia stringente: ad una persona con diagnosi di psicosi verrà somministrato un antipsicotico, un antidepressivo a chi è depresso ecc. Le cose non stanno così, e per molti motivi.
Uno dei maggiori è il progressivo allargamento del raggio d’azione del farmaco: ad esempio i cosiddetti SSRI (tipo il Prozac) sono stati introdotti come antidepressivi con grande risonanza mediatica, ma successivamente hanno ottenuto l’autorizzazione per i disturbi dell’alimentazione, il comportamento ossessivo-compulsivo, l’ansia “generalizzata” ecc. Lo stesso è accaduto per molti antipsicotici e perfino antiepilettici che oggi vengono normalmente prescritti come stabilizzatori dell’umore. Questo allargamento progressivo allenta il vincolo diagnosi-terapia fino a vanificarlo nel caso di somministrazioni contemporanee, anche senza considerare le interazioni reciproche tra farmaci.
Il collegamento è ancora più labile qualora, anziché le terapie farmacologiche, vengano prese in esame altre forme di terapia o riabilitazione psichiatrica. Ecco perché ritengo che il mancato approfondimento della relazione con “le terapeutiche” sia una lacuna grave quando si parla di diagnosi in psichiatria.
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