02 Umberto Eco
Non si mangia con l’anoressia culturale
03 Andrea Inglese
Disordine capitalistico e popolo minore
04 Lello Voce
Perché è oggi assolutamente necessaria
una Rivoluzione fragile
05 Daniel Bensaïd
«Troia non c’è più»
06 Cinzia Arruzza, Felice Mometti
Contrattempi, impazienza
*
Cultura anno Zero
07 Andrea Carandini
Appello al capo dello Stato
08 Claudio Strinati
Il Patrimonio
08 G.B. Zorzoli
La ricerca scientifica
09 Manuela Gandini
Svelti per favore si chiude
09 Martina Cavallarin
Drag and drop
10 Antonella Agnoli
La biblioteca necessaria
11 Vincenzo Ostuni
Per la liberazione dei lettori
12 Emidio Greco
Il Fus e il cinema italiano
12 Davide Ferrario
100 segni
13 Roberto Rizzente
Il giro di vite sul teatro
13 Guido Barbieri
All’assalto del palazzo incantato
14 Massimiliano Panarari
Animal Spirits
Osservatorio decrescita
15 Marino Badiale, Massimo Bontempelli
Un progetto rivoluzionario
16 Fausto Curi
L’uso della libertà
17 Franco Berardi Bifo
Mass Zynismus
19 Furio Colombo
Arrembaggio alla nave America
20 Nicholas Ciuferri
Caccia all’Irlanda
20 Oana Parvan
Romania, orfana d’Europa
21 Amador Savater
Esorcismo spagnolo
21 Vassilis Vassilikos
Anomalia greca
22 Alessandro Raveggi
Lo spirito (messicano) è un osso
22 Florinda Fusco
Lettera dal Perù
23 Michelangelo Pistoletto
Lo specchio del Paradiso
Dialogo con Achille Bonito Oliva
*
Beni comuni
27 Lucia Tozzi
Dalle enclousures alle gated communities
28 Franco Farinelli
La forma del territorio
29 La goccia e il vaso
Conversazione tra Lucia Tozzi e Ugo Mattei
29 Anna Curcio
Fare comune
30 Paulo Tavares
Diritti comuni
30 Decolonizing Architecture
Palestina: ritorno al comune
31 Marco D’Eramo
A Manhattan
32 Stefano Chiodi
Punta della Dogana
33 Angelo Guglielmi
L’assalto al vero di Antonio Porta
34 Paolo Bertetto
Raccontare la Storia
35 Alessandro Amaducci
Videoart versus tv
36 Christian Caliandro
L’immagine-corpo della donna
37 Elena Casetta
Foemina sapiens e l’etologo alieno
39 Carla Subrizi
Quale Antigone oggi?
40 Guliano Torrengo
Relativismo e omosessualità
41 Riccardo Finocchi
Il nostro quotidiano estetizzato
41 Denis Isaia
La traslazione di un piano
42 Andrea Cortellessa
L’Interessato
43 Simone Barillari
Le valigie del Presidente
43 Antonio Loreto
Brillo Box
44 Daniela Panosetti, Benze (Chiara Panosetti)
Finché c’è satira c’è speranza
Cronache da www.alfabeta2.it
45 Chiappanuvoli
Lacrime di poveri Christi
46 Gianni Sassi
La comunicazione faccia a faccia
46 Aldo Colonetti
Gianni Sassi e il Times
48 Ilaria Bussoni
Quegli scudi di libri
48 Letizia Paolozzi
Sessantottofobia: una malattia al Governo
Gentile Redazione,
Ho trovato davvero interessante l’ articolo di Andrea Inglese sull’ “amnesia mediatica” intitolato “Disordine capitalistico e popolo minore.
Avevo poco tempo fa fatto alcune riflessioni su quella che mi pareva un caso analogo di “amnesia mediatica” durante la dscussione pubblica del caso Fiat.
Ve le propongo di seguito, magari meritano un approfondimento da parte vostra.
Saluti
Francesco La Rosa
ps ho indicato il sito perché lì ho messo queste note, ma non vi tratto di regola argomenti politici
Fare le macchine e non perdere soldi, questo pare il problema, o almeno questi sono i termini in cui il problema è stato posto davanti alla pubblica opinione.
La Fiat produce macchine in vari paesi del mondo, in particolare in Polonia ed in Brasile, oltre che in Italia, e dovunque produce profitti fuori che in Italia. Nemmeno un euro.
Il motivo è stato chiaramente indicato: la scarsa produttività per addetto, che in Iatlia è appena un sesto di quella polacca.
Se questo è vero, è un dato devastante, e dovrebbe procurare allarme, prima di tutto nei sindacati. Con un rapporto di questo tipo, non solo la Fiat, ma tutta l’ industria italiana è in pericolo, e ben prima di pensare ad attrarre investimenti stranieri, qui c’è da chiedersi come possano le imprese italiane sopravvivere.
Però.
Però si dà il caso che io abbia realizzato un paio di progetti in Polonia, costruendo impianti all’ interno di stabilimenti polacchi e collaborando con personale ed imprese polacche. E con tutto il rispetto, non credo possibile che un operaio polacco produca sei volte di più del suo collega italiano, a parità di condizioni.
Dunque, c’è qualcosa che non mi spiego, ed in primo luogo non mi spiego come mai un dato così spaventoso come quello sulla produttività non abbia sollevato un accanito dibattito pubblico.
A me sorge il dubbio, ad esempio, che nel calcolare la produttività (numero di macchine prodotte diviso numero di addetti) siano stati considerati anche operai che in quel momento erano in cassa integrazione, la cui produttività non può che essere zero per definizione.
Mi viene anche il dubbio che un altro fattore possa influenzare il confronto, e cioè il fatto che in Polonia la produzione è concentrata in un unico mega stabilimento (peraltro moderno), mentre in Italia è frazionata su sei siti produttivi.
Sei siti, naturalmente, vogliono dire sei magazzini, sei uffici del personale, amministrazioni, guardianie, ecc. In altre parole, la produzione frazionata su tante fabbriche fa aumentare il peso delle staff, cioè di quel personale indispensabile al funzionamento della fabbrica ma non direttamente impegnato nella produzione.
Io non so se le cose stiano davvero così, ma mi piacerebbe saperlo.
A questo punto mi soccorre anche la considerazione che il costo del lavoro, in Italia, non è affatto fra i più alti.
Tutto è relativo, naturalmente, ed i dati calcolati dalla OCSE si riferiscono a salari netti a parità di potere d’ acquisto, quindi si tratta di dati elaborati che vanno presi con cautela. E ciononostante il risultato è che gli operai meglio pagati al mondo sono i coreani (!) e che gli operai italiani guadagnano sensibilmente meno della media europea, circa il 30%meno dei loro colleghi tedeschi. Chi l’ avrebbe mai detto.
Sorge così un dubbio ulteriore: come possono reggere la concorrenza i tedeschi, con stipendi così elevati ? Una parziale spiegazione me la do osservando che nell’ industria automobilistica il costo del lavoro incide in misura modesta sul prodotto finito: in Italia circa il 7%.
Da questo però si ricava anche che riuscendo anche a ridurre il costo del lavoro in misura sensibile, diciamo del 15-20 %, il risultato sarebbe una riduzione del costo di produzione dell’ 1 – 1,5 % al massimo. È davvero questo il punto critico, lo snodo attraverso cui passa il futuro dell’ industria automobilistica d’ Italia ? Ancora una volta, mi riesce difficile crederlo.
È un dato di fatto che, in campo automobilistico, l’ industria tedesca, nonostante gli alti stipendi, rappresenta di gran lunga il modello di maggior successo in Europa, e forse nel mondo. Bastano i nomi di BMW, Mercedes, Audi, Volkswagen, Porsche per convincersi.
Quali siano i motivi di questo successo, questa mi sembra una domanda interessante.
È curioso che nei giorni in cui si discuteva dei contratti Fiat non si sia tentato almeno di comprendere affinità e divergenze fra il modello tedesco e l’ industria italiana.
Io un paio di differenze sostanziali ce le vedo, una di tipo gestionale ed un’ altra più strettamente industriale.
Quella gestionale consiste nella cooptazione dei rappresentanti dei lavoratori nella governance delle aziende, la cosiddetta “cogestione”. In pratica, al di sopra del consiglio di gestione dell’ azienda siede un “consiglio di sorveglianza”, il quale ha il compito di approvare il bilancio, ed al quale è garantito l’ accesso ad ogni tipo di informazione. In questo consiglio di amministrazione, metà dei delegati solo rappresentanti dei lavoratori.
Facendo una rapida digressione, c’è qui da dire che il modello Chrysler è ancora più “estremo”, in quanto in Chrysler il fondo pensione del sindacato dei lavoratori è addirittura, di gran lunga, l’ azionista di maggioranza, con il 63% delle azioni, ed è in grado, quindi, persino di licenziare Marchionne se non dovesse portare risultati convincenti.
Ora, una cosa è chiara: la presenza di rappresentanti degli operai negli organismi di vertice dell’ azienda fornisce una legittimazione fortissima a qualsiasi piano che preveda tagli e sacrifici, proprio perché condiviso. Ed è al contempo una garanzia che, nei tempi di vacche grasse, i profitti siano distribuiti a tutti. È insomma un meccanismo che, a mio parere, favorisce la produttività creando in ciascuno un interesse “personale”, tangibile, rendendo meno lineare e più intrecciato, per così dire, il rapporto fra capitale e lavoro. Certo, ci vuole la mentalità giusta, non ci si arriva in un giorno, ecc, ecc, però se mai si comincia mai si arriva, da nessuna parte.
Il secondo punto è più strettamente industriale.
I costruttori di macchine tedeschi hanno avuto successo puntando non sul basso prezzo e sul prodotto “popolare”, ma su un’ elevata qualità che giustificasse un prezzo più elevato della concorrenza.
Si sono in questo modo sottratti all’ assalto dei nuovi arrivati (coreani, indiani, cinesi) che non sarebbe stato possibile battere sul piano dei prezzi, presidiando in modo forte la fascia alta del mercato. In altri termini, facendo in modo che anche il cinese o l’ indiano benestante si rivolga all’ acquisto di un’ auto tedesca e non di una Tata più grande. Non a caso (forse) il meno fortunato dei produttori d’ auto che hanno fabbriche in Germania appare la Opel, che al di là del fatto di appartenere a General Motors, mi sembra abbia da una decina d’ anni abbandonato la strada che pure aveva intrapreso verso l’ elevata qualità per ritornare verso modelli di livello più popolare ed economico.
Non è una scelta facile, intendiamoci, quella della fascia alta di mercato, non è mestiere per chi ami la vita tranquilla, la clientela “premium” è assai esigente, e per di più la concorrenza ci mette sempre di meno a colmare i divari, qualsiasi innovazione “esclusiva” diventa nel giro di pochi anni un “must” che nessuno più trascura di offrire sui propri modelli. Ma ne vale la pena. Trovarsi davanti a tutti, e quindi poter imporre un prezzo “premium” dovrebbe consentire anche di trovare più agevolmente le risorse per finanziare lo sforzo, in una specie di circolo vizioso.
Dovrebbe essere un discorso abbastanza naturale per noi italiani, quello di cercare l’ eccellenza e la distinzione, del resto è su quello che – per dire – prospera la Ferrari. Ed è il recupero verso l’ eccellenza che, dopo anni assai appannati, sta oggi tentando la Maserati.
Ed allargando lo sguardo ad altri tipi di prodotti, il Made in Italy non è forse un sinonimo di “fascia alta”, prodotti costosi per clienti esigenti ?
In fondo, in questo contesto mi pare anche significativo che il vero grande successo Fiat di questi anni sia stata la 500, che non puntava affatto sul prezzo basso, bensì sull’ immagine “trendy”per la quale il cliente fosse disposto a pagare di più, pretendendo però anche un prodotto di alto livello. Un filone non a caso aperto proprio dalla BMW con la riedizione della Mini. Un approccio un po’ modaiolo, (legato forse anche alla personalità un po’ “esuberante” di Lapo Elkann ?), ma che mi sembra abbia pagato. Un filone che purtroppo la Fiat pare avere già smarrito o abbandonato, tornando a modelli più economici ed anonimi, che puntano sul prezzo competitivo. Della “nuova Topolino”, annunciata come l’ anti-Smart, sembrano perse le tracce.
Ecco, magari c’è del vero in quello che dico, magari no, però a me nel corso della vicenda Fiat sarebbe davvero piaciuto sentir discutere di tutte queste cose.