Alessandro Raveggi
Questo è il primo di quattro brevi articoli sulla condizione apolide in cui sto versando negli ultimi tempi della mia vita. Vogliono essere, nel loro intento, piccoli interrogatori di avanscoperta e riconciliazione, pizzicamento di vie di fuga tracciate da un punto fisso e dolente, ripensamento dopo l’allontanamento. Agiscono attraverso l’esposizione a un occidente estremo, quello del Messico e delle Americhe, lontani ciononostante dalla moda post-coloniale del diverso. Saranno appunti per la ricucitura di una storia personale, intima, quella si potrebbe dire italiana, sebbene in un senso lato e, se non fosse uggioso il termine, glorioso: storia di miei illustri “vicini di casa”, come Vespucci, figlio del Castello di Montefioralle nel Chianti, di politici visionari come il fiorentino Dante, e artisti della luna come il, di poco lontano, pisano Galileo.
Il presente articolo tratterà del dialogo tra gente e spirito, il secondo articolo si concentrerà sul rapporto tra metropoli e ambiente, prendendo ad esempio quell’intrico sublime di bellezza e spazzatura che è Città del Messico; il terzo, tratterà del senso di parole come avventura e destino al giorno d’oggi, entrambi abbandonate a favore di termini vacui come interazione. Infine, il quarto si nutrirà di una vertigine: il rapporto tra cosmo e nazione: visto che i destini del mondo verranno discussi da un manipolo di nazioni, nel dicembre di quest’anno, dopo la fallimentare Copenhagen, proprio in Messico. Tutti nasceranno dalla nostalgia di una comunità futura, quella italiana, che sorgerà in mezzo al deserto di rovine a pagamento e ristoranti, tra forse venti o trent’anni.
Prendo spunto dal lemma che campeggia nell’emblema dell’università dove adesso mi trovo, l’Università Nazionale Autonoma del Messico, cuore intellettuale ancora pulsante di un Paese affaticato, trivellato dai colpi del narcotraffico e dai buchi della mala economia, ombra spenta di quella dei cosiddetti gringos. Il lemma in questione recita stentoreamente: Por mi raza hablará el espíritu.“Per la mia razza parlerà lo spirito”, dictum di José Vasconcelos, intellettuale umanista, filantropo e rettore dell’Università, fondatore e ministro della SEP, la Secretaria de Educación Publica messicana, omologa del nostro Ministero, nata nel 1921.
Di primo acchito c’è da rimanere allibiti: i termini “razza” e “spirito” stridono in testa ad un italiano abituato alla pacchiana professione di razza italica del fascismo - moda, tra l’altro, di seconda mano - e all’incensamento degli spiriti figli del Concordato perenne tra Stato e Vaticano. Cosa invece intendesse il pensatore messicano sarebbe forse troppo lungo da spiegare, nonostante la brevità dello scritto che sostiene il lemma: La Raza Cósmica. Lo scritto utopistico, pubblicato alla fine degli anni ‘20 del Novecento (in un periodo in cui di "razze" si cominciava a parlare troppo, e tragicamente), annuncia l’avvento, in un futuro scenario globale denominato Universópolis, di una quinta razza sulla terra: quella meticcia, crogiolo nel quale il messicano sta al centro, di diritto, come antesignano. La reazione sgomenta che puoi avere ad ascoltare certe parole, da italiano che né di razze né di spiriti vuole sentir parlare, e che forse si richiama alla mente la versione gentiliana del ministro Vasconcelos, viene così subito mitigata dalla lettura del libro, da poco ristampato, nella sua versione originaria di ciclo di conferenze negli Stati Uniti, per una innovativa casa editrice di Oaxaca, Almadía.
Senza scadere nell’esotismo razzista - “che carino, guarda te, come eran indietro questi messicani!” esclamerebbe qualche intellettuale salottiero, non ricordando che lo spiritualismo europeo era solo da poco nato, come reazione al positivismo, e che lo scritto, per l'epoca, era tutt'altro che arretrato.... - la parola raza, nonostante il suo fondamento materiale come risultato del meticciato, potrebbe essere tradotta con la parola italiana gente, il We, the people affermativo della Costituzione Americana, il Volk di Herder; e la parola espíritu con educazione, Bildung direbbero sempre i filosofi tedeschi, formazione intellettuale. Come se Vasconcelos volesse dirci: visto che al messicano non è toccata la Civilizzazione, se non come marchio a ferro, fuoco e Sacre Scritture, affermiamolo come popolo cosmico con la formazione, lo studio della Cultura, e che questa sia più libera possibile.
Per la mia gente parlerà la cultura, lo studio, il che significa voler affidare all’educazione e alle Lettere un valore non solo formativo, ma ricognitivo. Nella possibilità di ripercorre all’indietro la propria storia identitaria, che certo ha un fondo traumatico e violento, grazie alla reversibilità letteraria del tempo raccontato. Indietro, su su fino ai codici pre-ispanici, giardini di delizie e mostruosità, tappeti preziosi di glifi e incognite, labirinti del cosmo nei quali, a noi occidentali dal dopo-Crollo del Sogno statunitense, sarebbe mancato l’ossigeno. Ma, senza i quali, la visionarietà, e forse certo barocchismo, della cultura messicana sarebbero impensabili. La voce della mia raza sarà il suo spirito, e il suo spirito parlerà in divenire come la cultura, combinando riccamente una parola dopo l’altra, un divenire che tuttavia ci permette di comprendere l’origine della raza, origine drammatico, di scontro netto e dilaniante di civiltà: quella spagnola e quella azteca.
Di fronte ai cliché del violento e fraudolento messicano, dell’inspiegabile irrompere di una malvagità immotivata alla ¿Quién sabe?, o del messicano Joaquín Murieta alter-ego del maestro Aspri in Corporale di Volponi, quanto di più liberatorio, che un richiamo ai libri e alla cultura! Non c’è da immaginarsi, ciononostante, che il messicano, oggi come ieri, possa essere rappresentato da Carlos Monsiváis, riposi in pace, come prototipo de la raza. Né che il messaggio di Vasconcelos non sia stato inquinato già in origine da un tipo di retorica post-rivoluzionaria che ha spesso legittimato, anche per via "intellettuale", lo status quo. Sebbene il Messico sia terra di eccellenti scrittori e artisti, e di grande fascino per chi scrive e produce arte - fra molti esempi: il quasi-acquisito Bolaño e i suoi due colossi, Los detectives selvajes e 2666, ambientati in Messico, oppure l’incoronamento della nazione come patria surrealista, secondo Breton - e nonostante lo sforzo specialmente dell’Università Autonoma - che, si sappia, è gratuita - invidiata dagli atenei di mezzo mondo, l’analfabetismo è a livelli molto alti, e la raza messicana, specie quella dal bianco sguardo profondo perso in quella pelle eburnea, cicatrizzata nei tratti da un sole azteco affievolito dai neon statunitensi, è ancora aggrappata, con le sue tortillas di mais, a quella bestemmia chiamata sottosviluppo.
Categoria, quella del "sottosviluppo", rozzamente economica, e già stantia sul nascere, che non considera altri fattori, determinanti oggi per la definizione di una qualità della vita, che sia sostenibile con la qualità dell’ambiente globale. Una raza, per quanto cósmica (se ti trovi di fronte uno dei manoscritti preispanici, non stenti a crederci) ancora travagliata, dunque, quella messicana, che si trascina pesantemente dietro un cordone ombelicale mezzo spezzato dalla Conquista. Per questo, una raza in perenne sviluppo, ma allo stesso tempo immobile, che cerca nella sua cultura una ragione di sviluppo. Se la letteratura è la soggettività di una società in una permanente rivoluzione, come diceva Sartre, la società messicana coi suoi sforzi immani per diffondere la cultura, la passione per il libro e per la ricerca, fa quel che può di fronte ad una granitica immobilità egizia, come la definì Samuel Ramos. Ovvero lotta contro l'immobilità di se stessa.
C’è adesso da chiedersi: una volta distribuita la ricchezza, come uno dei fattori che distinguerebbe paesi sottosviluppati e sviluppati, e distribuita così malamente, cioè spartita tra narcos e politici, tra mafia e poteri forti, che abitano e frequentano qui gli stessi luoghi di villeggiatura dei turisti gringos e europei più facoltosi, non sono proprio il libro, la cultura e l’educazione, dei fattori che potrebbero nutrire ancora, alla libertà, il popolo messicano? Vasconcelos, d’altronde, non fu solo uno spiritualista, e conosceva bene il limiti materiali della raza, appena uscita dal calderone informe della Revolución. Solo che forse si immaginava uno sviluppo diverso, non solamente economico, non solamente dettato dalle regole del mercato USA, dagli investimenti e dalla speculazione edilizia. Uno sviluppo dettato da regole in cui la parola sottosviluppato (o il suo contentíno: in via di sviluppo) fosse una blasfemia da becero evoluzionismo economico.
Soffermandoci così su sorprese e meraviglie di questo altrove quotidiano, chiudendo la bocca ingenuamente aperta dallo stupore, molte domande vanno alla fine a ritornare allo spirito e alla raza che qui rappresento, una genia e una cultura che ogni volta ti trovi a far scivolare d’attrito su quella messicana: quella italiana, una cultura sovra-sviluppata e apparentemente satura. Ciò che mi sorprende, di fronte alle frequenti campagne messicane di invito alla lettura, o alle edizioni economiche per la classe medio-bassa, è il rendermi conto, volgendomi alle mie spalle, che il panorama, dal porto dal quale la mia piccola barca è partita, è dominato da un’arroganza di tasso pari al tasso di utopismo di Vasconcelos: una raza italica che pare vagare senza più spirito, che non crede più nei libri e anzi volentieri li dileggia (anche dall’interno, dal mondo oramai anti-culturale dell’editoria), e un espíritu boicottato da una raza imbarbarita, che proprio per questo ha perso il cordone ombelicale con il suo senso identitario e si rotola indistinta verso la barbarie, in attesa di rinnovare il prossimo contratto Sky. Che ha abbandonato la ricerca, non solo quella con la R maiuscola del MIUR, oramai dissanguata dai tagli governativi, ma anche quella ricerca di cui sopra: la capacità di rendere reversibile il tempo della raza, di rompere le condizioni materiali per farle “reagire” chimicamente, farle scivolare, sul tempo dello spirito, di pensare la comunità locale in rapporto ad una cosmologia culturale mondiale, di riuscire a pensare entrambe, al di là del crudo gioco economico-evoluzionistico.
Se oggi, a Vasconcelos, si dedica una biblioteca all’avanguardia nella Città del Messico, al centro della quale si staglia lo scheletro reale di una gigantesca balena, leggermente modificato dalla manodopera del noto artista messicano Gabriel Orozco - simbolo di una cultura naturale che, nonostante provenga da lontano, si libra leggera e dinamica sulla pesantezza drammatica della terra messicana - mi chiedo: che tipo di animale riposa nelle nostre biblioteche italiane? Uno scheletro leggero e imponente o un cadavere pesante e putrefatto? E, soprattutto, con chi ha a che fare?
La fotografia di spalla a destra è di rageforst, Biblioteca Vasconcelos - licenza Creative Commons, BY-NC-ND
La fotografia nell'articolo è di PVCG, Biblioteca José Vasconcelos - licenza Creative Commons, BY-NC
Concordo con te su molti punti che tratti nel saggio. Aggiungerei però che anche il Messico e i messicani, arrivati nel 2010 ai 200 anni di indipendenza politica (40 più di noi, per la cronaca), sono alla ricerca di una nuova identità collettiva rivolta verso loro stessi, all’interno, e verso l’esterno, da riesportare una volta elaborata e digerita in casa. Come spesso succede stando all’estero, riesco a vedere forse più oggettivamente una realtà come quella messicana.
Quella ereditata dalla Revoluciòn ha cominciato a fare acqua da quando lo stesso modello politico del partito egemonico, il Pri, è entrato in crisi, almeno dagli anni ottanta, ed è oggi rimodellata sul gusto gringo o internazionale “standard”. E’ appiattita dall’ideario del turista modello e della sua Lonely Planet che restano abbagliati dalla ricerca spasmodica dell’artefatto visto su Internet, dei sorrisi stampati sulle guide, del dolcetto a forma di teschio, della violenza addomesticata di qualche quartiere popolare riconvertito a “museo della povertà” aperto al pubblico e, in definitiva, delle mille cose che a tutti noi, in un primo momento di “innocenza”, hanno colpito di questo paese, cioè di quello che il paese vuol far vedere di sé allo straniero e ai suoi abitanti.
Preciso. Forse loro non sono alla ricerca della nuova identità e dei valori comuni, ma sarebbe meglio che lo fossero e che rinnovassero i miti e gli ideali del periodo post-revoluzionario come auspica Tenorio Trillo sulla rivista Nexos di giugno.
In effetti è per ora più comodo continuare a coltivare, diffondere ed eventualmente rimaneggiare e integrare con nuovi elementi (come la Santa Muerte che va inserendosi irrimediabilmente nelle collezioni di santi messicani globalizzati e riciclati) lo stereotipo redditizio che è nato negli anni di Vasconcelos ed è stato poi rifinito e internazionalizzato da “filosofi nazionali” come Gamio e Ramos e da grandi poeti e scrittori come Fuentes e Paz.
Peccato che oggi questi stereotipi servano più al turismo che al popolo messicano, oramai pienamente entrato nel villaggio globale dopo quasi 30 anni di aperture forzate e drastici cambiamenti economici e sociali, quindi stanco e bisognoso di una lotta vera per la redistribuzione della ricchezza e la definitiva democratizzazione del sistema politico e del panorama informativo, uniche vie per uscire da quella brutta parola che citavi qui sopra, ovvero, il “sottosviluppo”. D’accordo poi sul chiederci anche :”ma sotto-sviluppo rispetto a che??”…
Saludos. Fabrizio
Caro Fab, d’accordo sul tuo intervento.
Forse ho peccato di “culturalismo”, andando ad allinearmi con quegli autori inter-nazionalizzati di cui parlavi, che tuttavia non considero totalmente artefici di quella stereotipia un po’ eurocentrista, come ad esempio si arrischia a dimostrare per troppa foga Roger Bartra, filosofo e antropologo che apprezzo assai, in “La jaula de la melancolia”. Spero che saremo d’accordo nel considera questi intellettuali non diretti artefici dell’egemonia PRI.
Mi sembrano in realtà molto interessanti, a rileggerle oggi in questo tempo sbalestrato e spinto verso il baratro, le affermazioni di Paz (e quelle di Fuentes, che arrivano quasi a ricalcare il primo) che (cfr. “El laberinto de la soledad”), contro un indigenismo troppo spinto, descrive il messicano come contemporaneo di tutto gli altri popoli, contemporaneo in quanto sospeso tra un passato fondazionale quasi cancellato (o cancellabile) e un futuro incognito e minaccioso. Io trovo, tuttavia, e sicuramente saranno in molti a criticarmi, che la fondazione dell’identità del messico, attraverso le armi della letteratura, si sia dimostrata alla fine come impossibilità di fondazione di un’identità nazionale. Questo, non sempre, è un difetto: anche se si può rimanere sospesi tra un multiculturalismo esacerbante e un localismo “on sale”, frutto maldestro di una egenomia yankee lampante.
Ciao, scusa io sincerimente ho difficoltà a capire e ad assimilrae il contenuto del tuo articolo. Sarà che se leggi sul monitor e’ molto difficile capire una scrittura complicata (ma era una condizione necessaria o solo un vezzo?) e allora lunedi in ufficio me lo stampo e me lo studio con calma. ma ora visto che si accenna alla cultura messicana e si cita vasconcelosmi permetto di citare un testo di Juan Villoro che spiega in molto chiaro alcune peculiarità della realtà messicana.
“”Io credo che l’infrarrealismo non arrivò nemmeno al punto di dover essere censurato. Fu ignorato totalmente […] La società messicana ha avuto per tutto il XX secolo una struttura molto piramidale dove si faceva buona parte della cultura attraverso canali ufficiali.nota La maggior parte dei dei nostri scrittori nazionali avevano un incarico pubblico, di basso o alto livello. José Gorostiza, per esempio, fu viceministro degli esteri, Octavio Paz lavorò 28 anni nel servizio estero, José Vasconcelos Ministro della Cultura, Martín Luis Guzmán presidente della Commissione del testo gratuito, Salvador Novo direttore del dipartimento di teatro, Daniel Cossío Villegas fondatore del Collegio del Messico, Sergio Pitol ebbe molti incarichi diplomatici, José Luis Martínez diresse il Fondo Di Cultura Económica……….
Vale a dire, ci furono una innumerevole quantità di scrittori che avevano incarichi pubblici in relazione diretta con la politica. Il beneficio fu che abbiamo avuto istituzioni molto più solide e aperte rispetto al resto dell’America Latina e lo svantaggio è stato che abbiamo avuto una cultura molto piu’ omologata che tolse spazio alla dissidenza […]
Certo è meglio avere una cultura istituzionalizzata che si prende la briga di pubblicare uno scrittore sconosciuto come Juan Rulfo ( sto citando sempre juan Villoro: http://www.archiviobolano.it/bol_dete_villoro.html ) che un “cultura” che viene sistematicamente e istituzionalmente sbeffeggiata, mortificata e distrutta dalle italiche istituzioni.
Si potrebbe utilizzare lo stesso schema per ciò che riguarda le istituzioni politiche che così hanno funzionato fino agli anni ’80. E il feroce massacro degl istudenti di Tatlelolco nel ’68, con oltre 3.000 morti ne è l’emblema.
Il problema, o se vogliamo la peculirità del Messico sta tutta in quei 3.140 km di frontiera con gli USA il cosiddetto primo mondo, che rendono palpabile e visibile persino ai ciechi, persino agli scribacchini, la presunta “razionalità” fredda ed extraterriotoriale del moderno profitto, che si smarca da ogni vincolo etico e “legale” e dispiega tutta la sua potenza “creatrice” di denaro e potere , concentrati nelle mani di potenti che godono della massima impunità, al prezzo della distruzione dell’ambiente e delle relazioni umane, della memoria, della riduzione del lavoro allo stato di schiavitù.
Il profitto, nella sua massima astrazione non considera rilevanti i modi e le forme attraverso cui viene prodotto: sfruttamento del lavoro e dei minori, traffico di droga, traffico di clandestini, riciclaggio del denaro sporco e criminale…quei poveri corpi di donne stuprate ridotti a , carne da macello, “ossa del deserto”, esibiti, ostentati e manipolati come un codice per comunicare e minacciare il proprio potere e la propria impunità…. In quell’orrore forse, è visibile il destino delle società post-industriali, la loro folle corsa contro l’abisso….
Ciao Carmine, grazie per il tuo commento, che scoperchia molte pentole bollenti.
Come già notavo, o forse no, parlare di letteratura in Messico provoca sempre lo stancante giochino della “letteratura istituzionale” vs. “letteratura dissidente”, stancante perché improponibile altrove, dove gli scrittori non hanno avuto grossi incarichi pubblici (non sempre un vantaggio), e si sono condotti in una privacità a volte esasperante. Altrove, penso all’Europa e all’Italia, ovviamente, le lotte tra integrati e “marginali” son più orizzontali che verticali, anche se i Ministeri di Cultura e le Istituzioni culturali nazionali spesso spingono questo piuttosto che quest’altro scrittore e artista all’interno della loro retorica. Quindi: preferiamo l’artista raccomandato dallo Stato o l’intellettuale che, con un incarico pubblico, esprime cionostante la sua dissedenza?
Parlare, ad esempio, di Paz come di intelluttuale integrato con il sistema PRI, è a mio avviso in parte sbagliato: tu mi citi Tlatelolco, l’emblema della piramide, io potrei citarti “Posdata” e “Crítica de la piramide”. D’altronde, vedo che sei un bolañano (come me, in parte): Bolaño nel 1974, ai tempi dell’infrarrealismo, se non sbaglio aveva 21 anni, anni in cui io persino, da scribacchino alle prime armi e infrarrealista italico a mio modo, odiavo Montale.
Juan Villoro parla di mancanza di dissidenza, ma ad esempio anche lui era addetto culturale, a Berlino Est, dell’Ambasciata Messicana, oltre ad essere professore della Universidad Nacional Autonoma del Messico, istituzione promossa e diretta da Vasconcelos negli anni, e che si trova oggi ad essere gratuita, pubblica, e nonostante tutto efficiente, grazie alle scelte passate. La UNAM poi, bisogna ricordarcelo, ha come suo giornale di riferimento “La Jornada”, uno dei giornali dissidenti del Messico, etc. potrei continuare a mostrare contraddizioni messicane per giorni. Ci sono anche, non dimentichiamoceli, gli intellettuali integrati con il sistema PRD, una delle sinistre più conservatrici e populiste al mondo (con delle eccezioni al suo interno) [rimando a questo bell’articolo di Roger Bartra: http://www.letraslibres.com/index.php?art=14239%5D
Tutta questa logica bifida, penso che debba essere connessa a una logica più profonda, molto politica: la volontà, da un lato, di rafforzare retoriche unitarie e nazionalistiche e, dall’altro, di ricalcare aperture culturali europee, se vuoi motivate da certo europeismo mimetico. Oggi, ma già negli anni ’70, questo meccanismo è fallace, perché non può più esserci un riferimento culturale monocorde nella Vecchia Europa, né grande afflato unitario -se non di facciata- in una società divisa dall’imperialismo gringo, dove l’alta società, invece della noblesse francese, cerca l’american way of life delle upper class nordamericane. E la classe bassa non può che accontentarsi degli scarti, i loghi e i sogni che cadono dall’alto, mantenendo quel poco di messicano che ancora si può trovare in un dialetto, in un modo di vivere collettivo, o una ricetta culinaria.
caro Alessandro ti ringrazio della risposta che mette a fuoco la complessità e le contraddizioni di un Grande paese (che amo tanto per chiarire) . Mettiamola così: in Messico viene dato un grande spazio agli intellettuali – che vengono per così dire incorporati nell’apparato statale incluso J.Villoro – e anche libertà purchè tutto ciò non minacci in alcun modo le oligarchie economiche e. quindi, lo stato di profonda e indicibile ingiustizia sociale ed economica su cui il loro potere si basa. Come ha detto Castellanos Moya (che conosce molto bene la realta del Messico e centroamericana), oggi non fanno paura gli intellettuali, casomai i giornalisti: se la memoria non mi inganna, dall’inizio dell’anno ne hanno già ammazzati 9 (nove giornalisti ammazzati). Credo che tu conosca molto meglio di me lo stato di corruzione, illegalità e sopraffazione (http://blog.ilmanifesto.it/popocate/2010/07/01/presos-politicos-%C2%A1libertad/) che regna in Messico ed oggi in modo piu’ feroce, con l’irrompere nella scena politica ed economica del business del narcotraffico (stiamo parlando di un mercato di centinai di miliardi di dollari), questa si una cultura che sta plasmando l’immaginario degli stati del Nord, ne condiziona l’economia ed è capace di influenzare tutte le istituzioni e a tutti i livelli. Sempre dando dei numeri a memoria, si parla di 34.000 morti in due anni. Si parla di 850.000 immigrati clandestini all’anno, molti dei quali vengono lasciati morire nel deserto.
Insomma siamo di fronte a un fenomeno nuovo di proporzioni gigantesche che rischia di avvelenare lentamente quel paese. Un paese che per le sua sfortunatissima collocazione geografica vive nella sua pelle la faccia piu’ estrema della globalizzazione e dell’economia post-industriale. Per questo, tanto per citare Bolano, Ciudad Juarez non si puo’ spiegare immaginando che i messicani siano una razza satanica, ma forse Santa Teresa è la metafora, anzi un’anteprima possibile del nostro futuro. Per finire, riguardo agli intellettuali
“nostra etica è la vita, nostra estetica è la rivoluzione” diceva Bolano e io credo che a questo punto non ci sono più vie di mezzo.
Ciao Carmelo, grazie per aprire voragini!
Io son d’accordo in tutto quello che dici, non potrei non esserlo, essendo oramai mezzo-messicano, e soffro quasi più le vicissitudini questo Paese -che è sempre un grande paese, per storia, costumi, cultura e traiettoria futura- che il nostro Piccolo Stivale oramai ridotto ad un calzino striminzito. I morti del Messico stanno diventando i miei morti, le ingiustizie degli Stati Uniti le ingiustizie verso le quali indignarmi.
Per mia formazione, sono più portato a vedere le forme e gli emblemi dal volo ad uccello della letteratura, più abituato a percorrere mappa, pur sapendo e ascoltando la violenza intrinseca della storia. Il simbolo, spesso, può essere molto cinico, e me ne rendo conto. Non vorrei che però un discorso culturale venga fin troppo inquinato da un credo politico-economico, sul quale ci troviamo indubbiamente d’accordo, ma che è in fondo un’altra cosa, un altro sguardo. Così spesso si formano intellettuali fin troppo compromessi, e strutturati ad uno piuttosto che un altro partito, che vagano nel mondo coi paraocchi e non sanno affrontare le sue contraddizioni.
Non è un caso poi, che gli intellettuali messicani di cui ti parlavo, abbiamo svolto incarichi come ambasciatori della cultura messicana, si siano sempre sporti verso il fuori.
Grazie ancora e spero in altre critiche sui prossimi contributi! Alessandro